Indice degli scritti di Marx-Engels
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Presentazione
Sottopongo alla vostra attenzione questo
scritto di Engels, perché esso per noi oggi è particolarmente importante come
introduzione ad un approfondimento della comprensione della guerra popolare
rivoluzionaria nel nostro paese.
Nella storia del movimento comunista è il
primo scritto che tratta in modo sistematico della strategia della rivoluzione
socialista in Europa. Questo scritto è stato trascurato dai partiti comunisti
dei paesi imperialisti. Non a caso. Nessuno di essi ha elaborato una strategia
della rivoluzione socialista nel suo paese. A. Gramsci è stato un’eccezione tra
i dirigenti di quei partiti.
Questo scritto è già stato preso in esame da
noi nell’opuscolo Federico Engels: dieci,
cento, mille CARC per la ricostruzione del partito
comunista, 1995.
Introduzione di Friedrich
Engels a Le lotte di classe in Francia dal
1848 al 1850 di Karl Marx,
Londra, 6
marzo 1895
L’“Introduzione” per l’edizione in opuscolo di “Le lotte
di classe in Francia dal 1848 al 1850”, che uscì a Berlino nel 1895, fu scritta
da Engels pochi mesi prima della sua morte, fra il 14 febbraio e il 6 marzo
1895.
Il 6 marzo 1895, tramite una lettera di Richard Fischer,
la direzione del Partito socialdemocratico tedesco, adducendo motivi di
opportunità tattica e accennando al pericolo sempre incombente di una nuova
legge contro i socialisti, chiese a Engels di attutire il tono, ritenuto troppo
rivoluzionario, dell’“Introduzione” e di accogliere una serie di modifiche che
si considerava necessario apportarvi. Come è ora possibile vedere dalla
risposta di Engels a Fischer dell’8 marzo 1895 (la lettera, scoperta in tempi
relativamente recenti, è stata pubblicata per esteso solo nel 1967: cfr. nel
vol. 50 delle
Opere complete
Marx-Engels, pp. 457-459), questi, pur
manifestando riserve e critiche nei confronti dell’atteggiamento irresoluto del
partito e delle sue preoccupazioni legalitarie, accolse, salvo alcune
eccezioni, le richieste di modifica avanzate dalla direzione del Partito
socialdemocratico tedesco e consentì che fossero cancellati i passi relativi a
una eventuale lotta armata del proletariato contro la borghesia. Ma, ancor
prima che uscisse l’edizione in opuscolo, il 30 marzo 1895, apparve sul
“Vorwärts”, l’organo centrale della socialdemocrazia tedesca, un articolo di
fondo intitolato “Wie man heute Revolution macht” (Come si fanno oggi le
rivoluzioni) in cui, all’insaputa di Engels, venivano citati diversi brani
della sua “Introduzione”, scelti in modo tale da farlo apparire, come egli si
lamentò, “un pacifico sostenitore della legalità ad ogni costo” (cfr. Engels a Karl Kautsky, 1° aprile 1895,
volume 50 delle Opere complete Marx-Engels
, p. 489). Dietro espressa richiesta di Engels, l’“Introduzione” venne
allora pubblicata per esteso, ma sempre con le modifiche sopra menzionate,
sulla “Neue Zeit”, a. XIII (1894-95), vol. II, nn. 27-28.
I passi dell’“Introduzione” soppressi o modificati furono
pubblicati per la prima volta nel 1924 nell’Unione Sovietica a cura dell’Istituto
Marx-Engels-Lenin di Mosca. Oggi è possibile ricostruire la genesi dell’“Introduzione”
engelsiana, non solo nelle modifiche apportate o accolte da Engels rispetto
alla versione originaria del proprio scritto nelle pubblicazioni citate, ma
anche in quelle da lui arrecate nella fase di gestazione della primitiva
stesura, nell’edizione critica contenuta già nel “volume-prova” della “nuova
MEGA”: Marx-Engels, “Gesamtausgabe. Editionsgrundsätze und Probestücke”,
Berlin, 1972.
La presente traduzione è condotta sul testo integrale
dell’“Introduzione”. I passi soppressi nell’edizione del 1895 sono contrassegnati
da parentesi quadre. Alcune delle modifiche più importanti e le osservazioni
fatte da Engels nella summenzionata lettera a Fischer dell’8 marzo 1895 sono
riportate in note inscritte, in evidenza, nel testo.
Il lavoro che qui
viene ristampato fu il primo tentativo di Marx di spiegare mediante la sua
concezione materialista un frammento di storia contemporanea partendo dalla
situazione economica corrispondente. Nel “Manifesto del Partito comunista” la
teoria era stata applicata a grandi linee a tutta la storia moderna. Negli
articoli di Marx e miei nella “Neue Rheinische Zeitung” essa era stata
continuamente impiegata per interpretare gli avvenimenti politici correnti. Qui
invece si trattava di dimostrare, nel corso di uno sviluppo di parecchi anni
(1848-1850), altrettanto critico quanto caratteristico per tutta l’Europa, l’intimo
nesso causale e quindi, secondo il concetto dell’autore, di ricondurre gli
avvenimenti politici all’azione di cause in ultima istanza economiche.
Nel giudicare
avvenimenti e serie di avvenimenti della storia contemporanea non si sarà mai
in condizione di risalire sino alle cause economiche ultime. Persino
oggi che la stampa tecnica specializzata fornisce un materiale così ricco, non
è possibile nemmeno in Inghilterra seguire giorno per giorno il corso dell’industria
e del commercio sul mercato mondiale e i mutamenti che sopravvengono nei metodi
di produzione, in modo da poter in qualsiasi momento fare il bilancio generale
di questi fattori multiformi, complessi e in continua mutazione, fattori di cui
i più importanti, inoltre, agiscono a lungo e in modo latente prima di erompere
improvvisamente e violentemente alla superficie. Una netta visione della storia
economica di un periodo determinato non può mai formarsi contemporaneamente, ma
soltanto successivamente, dopo che sia stato raccolto e studiato il materiale.
La statistica è qui un ausiliare necessario ed arriva sempre in ritardo. Per la
storia contemporanea corrente si è quindi costretti anche troppo spesso a considerare
questo fattore, che è il più decisivo, come costante, ad assumere come data e
immutabile per l’intero periodo la situazione che si riscontra all’inizio del
periodo considerato, o a prendere in considerazione soltanto quei mutamenti di
questa situazione che sgorgano da avvenimenti che sono manifesti e che perciò
si presentano essi pure in modo aperto. Il metodo materialista dovrà perciò
limitarsi anche troppo spesso a ricondurre i conflitti politici a lotte di
interesse delle classi sociali e delle frazioni di classe preesistenti,
determinate dalla evoluzione economica e a ravvisare nei singoli partiti
politici l’espressione politica più o meno adeguata di queste stesse classi o
frazioni di classe.
È evidente che tale
inevitabile negligenza di quei mutamenti della situazione economica - base vera
di tutti gli avvenimenti che si devono indagare - che si producono durante gli
avvenimenti stessi, non può essere che una fonte di errori. Ma tutte le
condizioni di una esposizione sintetica della storia contemporanea racchiudono
in sé inevitabilmente fonti di errori, il che però non impedisce a nessuno di
scrivere la storia contemporanea.
Quando Marx si
accinse a questo lavoro, l’accennata fonte di errori era ancora più
inevitabile. Durante il periodo rivoluzionario del 1848-49 era semplicemente
impossibile seguire le fluttuazioni economiche che si compivano in quello
stesso momento, o anche solo abbracciarle con uno sguardo generale. Lo stesso
dicasi dei primi mesi dell’esilio di Londra, nell’autunno e nell’inverno
1849-50. Ebbene, fu appunto quello il momento in cui Marx incominciò il suo
lavoro. E nonostante queste circostanze sfavorevoli, l’esatta conoscenza tanto
della situazione economica della Francia prima della rivoluzione di febbraio,
quanto della storia politica di questo paese dopo questa rivoluzione, gli
permisero di dare una esposizione degli avvenimenti che rivela la loro intima
connessione con una perfezione che non fu più raggiunta in seguito e che resistette
brillantemente alla duplice prova cui la sottopose in seguito lo stesso Marx.
La prima prova la si
ebbe quando Marx, a partire dalla primavera del 1850, ebbe nuovamente agio di
dedicarsi agli studi economici e si accinse innanzi tutto allo studio della
storia economica degli ultimi dieci anni. In questo modo gli risultò
completamente chiaro dai fatti stessi ciò che sino allora egli aveva ricavato
in modo quasi aprioristico da materiali insufficienti: che la crisi commerciale
mondiale del 1847 era stata la vera madre delle rivoluzioni di febbraio e di
marzo e che la prosperità industriale ristabilitasi a poco a poco dalla metà
del 1848 e giunta al suo apogeo nel 1849 e nel 1850, fu la forza che dette vita
e nuovo vigore alla reazione europea.
Ciò fu decisivo.
Mentre nei primi tre articoli (apparsi nei fascicoli di gennaio, febbraio e marzo
della “Neue Rheinische Zeitung”, Amburgo 1850) traspare ancora l’attesa di una
prossima ripresa di energia rivoluzionaria, la rassegna storica fatta da Marx e
da me nell’ultimo fascicolo doppio, apparso nell’autunno del 1850
(maggio-ottobre), rompe una volta per sempre con questa illusione: “Una nuova
rivoluzione non è possibile se non in seguito a una nuova crisi. L’una è però
altrettanto sicura quanto l’altra”. Ma questo era altresì l’unico mutamento
sostanziale che vi era da introdurre. Quanto alla interpretazione degli
avvenimenti data nei capitoli precedenti e al nesso causale che in essi veniva
stabilito, non vi era assolutamente nulla da cambiare, come lo prova il seguito
della narrazione, dato nella stessa rassegna e che va dal 10 marzo sino all’autunno
1850. Perciò ho inserito questo seguito nell’attuale ristampa, come quarto
articolo.
La seconda prova fu
ancora più dura. Immediatamente dopo il colpo di Stato di Luigi Napoleone del 2
dicembre 1851, Marx prese nuovamente in esame la storia della Francia dal
febbraio 1848 sino a questo avvenimento, il quale poneva temporaneamente un
termine al periodo rivoluzionario (“Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte”, terza
edizione, Amburgo, Meissner, 1885). In questo opuscolo viene nuovamente
trattato, sebbene più succintamente, il periodo esposto nel nostro scritto. Si
confronti con la presente questa seconda esposizione, scritta alla luce di un
avvenimento decisivo avvenuto un anno più tardi e si vedrà che l’autore ebbe
ben poco da cambiare.
Ciò che conferisce
inoltre un’importanza del tutto speciale al nostro scritto è che esso enuncia
per la prima volta la formula in cui l’unanimità dei partiti operai di tutto il
mondo riassume brevemente la sua rivendicazione della trasformazione economica:
l’appropriazione dei mezzi di produzione da parte della società. Nel secondo
capitolo, a proposito del “diritto al lavoro”, che viene designato come “prima
formulazione goffa in cui si riassumono le rivendicazioni rivoluzionarie del
proletariato”, si dice: “Ma dietro il diritto al lavoro sta il potere sul
capitale, dietro il potere sul capitale sta l’appropriazione dei mezzi di
produzione,il loro
assoggettamento alla classe operaia associata e quindi l’abolizione del lavoro
salariato, del capitale e dei loro rapporti reciproci”.
Qui è dunque - per la
prima volta - formulata la proposizione secondo la quale il socialismo operaio
moderno si distingue nettamente tanto da tutte le diverse sfumature di
socialismo feudale, borghese, piccolo-borghese, ecc., quanto dalla confusa
comunità dei beni del comunismo utopistico e del comunismo operaio primitivo.
Quando Marx, in
seguito, estese questa formula all’appropriazione anche dei mezzi di scambio,
questa estensione, che del resto sulla base del “Manifesto del Partito comunista”
si comprende da sé, non esprimeva che un corollario della proposizione
principale. Recentemente in Inghilterra alcuni sapientoni hanno ancora aggiunto
che anche i “mezzi della distribuzione” debbono essere passati alla società.
Sarebbe difficile a questi signori dire quali siano questi mezzi economici di
distribuzione, diversi dai mezzi di produzione e di scambio, a meno che non si
parli di mezzi di distribuzione politici: imposte, assistenza ai poveri, compresi il Sachsenwald [496] e altre dotazioni. Ma in primo luogo questi sono già ora
mezzi di distribuzione in possesso della comunità, dello Stato o del comune e
in secondo luogo noi li vogliamo appunto abolire.
Quando scoppiò la
rivoluzione di febbraio (1848), ci trovavamo ancora tutti, per quanto riguarda
le nostre concezioni circa le condizioni e lo sviluppo dei movimenti
rivoluzionari, sotto l’influenza della precedente esperienza storica,
specialmente della Francia. Era proprio quest’ultima, infatti, che aveva
dominato tutta la storia europea a partire dal 1789 e da cui anche ora era
stato nuovamente dato il segnale del rivolgimento generale. Era quindi naturale
e inevitabile che le nostre concezioni della natura e dello sviluppo della
rivoluzione “sociale” proclamata a Parigi nel febbraio 1848, della rivoluzione
del proletariato, fossero fortemente colorite dai ricordi dei modelli del
1789-1830. E specialmente quando il sollevamento di Parigi trovò la sua eco
nelle insurrezioni vittoriose di Vienna, Milano, Berlino, quando tutta l’Europa
sino alla frontiera russa venne trascinata nel movimento; quando poi in giugno
a Parigi venne combattuta la prima grande battaglia per il potere tra il
proletariato e la borghesia; quando la vittoria stessa della propria classe
scosse a tal punto la borghesia di tutti i paesi che essa si rifugiò di nuovo
nelle braccia della reazione feudale monarchica poco prima rovesciata, date le
condizioni di allora non poteva più esistere per noi nessun dubbio che era
scoppiata la grande lotta decisiva e che questa lotta doveva venir combattuta
in un solo periodo rivoluzionario di lunga durata e pieno di alternative, il
quale però poteva chiudersi soltanto con la vittoria definitiva del
proletariato.
Dopo la sconfitta del
1849 non condividemmo in nessun modo le illusioni della democrazia volgare
raccolta attorno ai governi provvisori futuri in partibus [141].
Questa contava su una vittoria rapida, decisiva una volta per tutte, del “popolo”
sugli “oppressori”; noi su una lotta lunga, dopo l’eliminazione degli “oppressori”,
tra gli elementi contraddittori che si celavano precisamente in questo “popolo”.
La democrazia volgare aspettava la nuova esplosione dall’oggi al domani; noi
dichiaravamo già nell’autunno 1850 che almeno il primo capitolo del periodo
rivoluzionario era chiuso e che non vi era da aspettarsi nulla sino allo
scoppio di una nuova crisi economica mondiale. Per questo fummo messi al bando
come traditori della rivoluzione da quegli stessi che in seguito fecero tutti,
quasi senza eccezione, la pace con Bismarck, nella misura in cui Bismarck trovò
che ne valeva la pena.
Ma la storia ha dato
torto anche a noi; ha rivelato che la nostra concezione d’allora era una
illusione. La storia è andata anche più lontano; essa non ha soltanto demolito
il nostro errore di quel tempo; essa ha pure sconvolto radicalmente le
condizioni in cui il proletariato ha da lottare. Il modo di combattere del 1848
è oggi sotto tutti gli aspetti antiquato e questo è un punto che in questa
occasione merita di essere esaminato più da vicino.
Tutte le passate
rivoluzioni hanno condotto alla sostituzione del dominio di una classe con
quello di un’altra; ma sinora tutte le classi dominanti erano soltanto piccole
minoranze rispetto alla massa del popolo dominata. Una minoranza dominante
veniva rovesciata, un’altra minoranza prendeva il suo posto al timone dello
Stato e rimodellava le istituzioni politiche secondo i propri interessi. E ogni
volta si trattava di quel gruppo di minoranza che le condizioni dello sviluppo
economico rendevano atto e chiamavano al potere. Appunto per questo e soltanto
per questo avveniva che la maggioranza dominata partecipava al rivolgimento
schierandosi a favore di quella minoranza, oppure si adattava tranquillamente
al rivolgimento stesso. Ma se prescindiamo dal contenuto concreto di ogni caso,
la forma comune di tutte quelle rivoluzioni consisteva nel fatto che esse erano
tutte rivoluzioni di minoranze. Anche quando la maggioranza prendeva in esse
una parte attiva, lo faceva soltanto, coscientemente o no, al servizio di una
minoranza; questo fatto però, o anche solo il fatto dell’atteggiamento passivo
e della mancanza di resistenza della maggioranza, dava alla minoranza l’apparenza
di essere rappresentante di tutto il popolo.
Dopo il primo grande
successo, la minoranza vittoriosa in generale si scindeva: una metà era
soddisfatta dei risultati raggiunti, l’altra voleva andare più avanti e
presentava nuove rivendicazioni, che corrispondevano almeno in parte all’interesse
reale o apparente della grande massa popolare. Queste rivendicazioni più
radicali vennero in certi casi anche realizzate, ma spesso solo per un momento.
Infatti il partito più moderato prendeva di nuovo il sopravvento e le ultime
conquiste andavano in tutto o in parte perdute di nuovo. Gli sconfitti
gridavano allora al tradimento, o attribuivano la sconfitta al caso. In realtà
però le cose stavano per lo più a questo modo: le conquiste della prima
vittoria non erano state assicurate che dalla seconda vittoria del partito più
radicale; raggiunto questo punto e quindi anche ciò che era momentaneamente
necessario, i radicali e i loro successi sparivano nuovamente dalla scena.
Tutte le rivoluzioni
dell’età moderna, incominciando dalla grande rivoluzione inglese del secolo
XVII, hanno presentato questi lineamenti, che sembravano inseparabili da ogni
lotta rivoluzionaria. E sembrava che essi fossero da applicarsi anche alle
lotte del proletariato per la sua emancipazione; tanto più applicabili in
quanto proprio nel 1848 si potevano contare sulle dita coloro che comprendevano
anche solo in una certa misura in quale direzione si dovesse cercare questa
emancipazione. Persino a Parigi, anche dopo la vittoria, le stesse masse
proletarie non avevano nessuna idea chiara circa la via da battere. Eppure il
movimento esisteva, istintivo, spontaneo, insopprimibile. Non era proprio
quella la situazione in cui doveva vincere la rivoluzione, diretta bensì da una
minoranza, ma questa volta non nell’interesse della minoranza, bensì nel più
genuino interesse della maggioranza? Se in tutti i periodi rivoluzionari un po’
lunghi si erano potute guadagnare così facilmente le grandi masse popolari
anche solo mediante plausibili miraggi presentati loro dalle minoranze che le
spingevano avanti, come avrebbero potuto essere meno accessibili a idee che
erano il riflesso più esatto della loro situazione economica, che non erano
altro che l’espressione chiara, razionale, dei loro bisogni, da loro stesse
ancora incompresi, sentiti soltanto in modo ancora confuso? È vero che questo
stato d’animo rivoluzionario delle masse aveva lasciato il posto quasi sempre,
e per lo più molto presto, a uno spossamento e si era persino trasformato nel
suo contrario, non appena, svanita l’illusione, era subentrato il disinganno.
Ma questa volta non si trattava di miraggi, bensì della soddisfazione degli interessi
genuini della grande maggioranza stessa, interessi che non erano certamente
chiari a questa grande maggioranza, ma che presto, nel corso della realizzazione
pratica, avrebbero dovuto apparirle abbastanza chiari, con convincente
evidenza. E se nella primavera del 1850, come è dimostrato nel terzo articolo
di Marx, lo sviluppo della repubblica borghese sorta dalla rivoluzione “sociale”
del 1848, aveva concentrato il vero potere nelle mani della grande borghesia -
monarchica per giunta - e per contro aveva raggruppato tutte le altre classi
sociali, i contadini come i piccoli borghesi, attorno al proletariato, in modo
che durante e dopo la vittoria comune non esse, ma il proletariato agguerrito
dall’esperienza doveva diventare il fattore decisivo, non esistevano forse in
questa situazione tutte le prospettive di trasformare la rivoluzione della
minoranza in rivoluzione della maggioranza?
La storia ha dato torto
a noi e a quelli che pensavano in modo analogo. Essa ha mostrato chiaramente
che lo stato dell’evoluzione economica sul continente era allora ancor lungi
dall’esser maturo per l’eliminazione della produzione capitalista; essa lo ha
provato con la rivoluzione economica che dopo il 1848 ha guadagnato tutto il
continente e ha veramente installato la grande industria in Francia, in
Austria, in Ungheria, in Polonia e da ultimo anche in Russia; che ha veramente
fatto della Germania un paese industriale di prim’ordine - tutto ciò su una
base capitalista, capace quindi ancora nel 1848 di ben grande espansione. Ma è
stata precisamente questa rivoluzione industriale che ha fatto dappertutto luce
sui rapporti di classe, che ha eliminato una massa di forme di transizione
provenienti dal periodo della manifattura e, nell’Europa orientale, persino
dall’artigianato corporativo, che ha creato una vera borghesia e un vero
proletariato della grande industria e li ha spinti sulla scena dell’evoluzione
sociale. Ma in conseguenza di ciò la lotta tra queste due grandi classi, che
nel 1848, fuori dell’Inghilterra, esisteva soltanto a Parigi e tutt’al più in
alcuni grandi centri industriali, si è estesa per la prima volta a tutta l’Europa
e ha raggiunto un’intensità che nel 1848 non si poteva ancora concepire.
Allora, i numerosi e oscuri evangeli delle sette con le loro panacee; oggi l’unica teoria di Marx universalmente
riconosciuta, d’una chiarezza trasparente e che formula con precisione gli
obiettivi finali della lotta. Allora, le masse divise e distinte per località e
nazionalità, legate soltanto dal sentimento delle sofferenze comuni, poco
sviluppate, gettate confusamente dall’entusiasmo alla disperazione; oggi, un solo
grande esercito internazionale di socialisti, che avanza senza soste e di
cui si accrescono ogni giorno il numero, l’organizzazione, la disciplina, la
comprensione, la certezza della vittoria. E se anche questo potente esercito
del proletariato non ha ancora raggiunto la meta, anche se esso, lungi dal
conseguire la vittoria con una sola grande battaglia, deve progredire,
lentamente, di posizione in posizione, con una lotta dura e tenace, ciò
dimostra una volta per sempre come fosse impossibile conquistare la
trasformazione sociale del 1848 con un semplice colpo di sorpresa.
Una borghesia divisa
in due frazioni monarchiche dinastiche [497] che
prima di tutto
però desiderava la calma e la sicurezza per i suoi affari pecuniari; di fronte
ad essa un proletariato vinto, sì, ma ancor sempre minaccioso, attorno al quale
si raccoglievano sempre più la piccola borghesia e i contadini; la minaccia
continua di un’esplosione violenta, che malgrado tutto non offriva nessuna
prospettiva di soluzione definitiva. Tale era la situazione, che si sarebbe
detta fatta apposta per il colpo di Stato del terzo pretendente, del
pretendente pseudodemocratico Luigi Bonaparte. Con l’aiuto dell’esercito questi
pose fine il 2 dicembre 1851 alla situazione tesa e assicurò all’Europa la pace
interna, per gratificarla, in cambio, di una nuova era di guerre [498]. Il periodo delle rivoluzioni dal basso era, intanto,
chiuso; seguì un periodo di rivoluzioni dall’alto.
Il ritorno all’impero
del 1851 forni una nuova prova dell’immaturità delle aspirazioni proletarie di
quel tempo. Ma quel ritorno stesso doveva creare le condizioni nelle quali
queste aspirazioni dovevano maturare. La tranquillità all’interno assicurò un
pieno sviluppo al nuovo slancio dell’industria; la necessità di dare un’occupazione
all’esercito e di distrarre con questioni di politica estera le correnti
rivoluzionarie, generò le guerre in cui Bonaparte, col pretesto di far valere
il “principio di nazionalità”, cercò di arraffare delle annessioni per la
Francia. Il suo imitatore, Bismarck, segui la stessa politica per la Prussia;
fece nel 1866 il suo
colpo di Stato, la sua rivoluzione dall’alto contro la Confederazione tedesca e
l’Austria, non meno che contro la Konfliktskammer prussiana. Ma l’Europa era
troppo piccola per due Bonaparte. Così l’ironia della storia volle che Bismarck
abbattesse Bonaparte (1870-1871) e che il re Guglielmo di Prussia non
instaurasse soltanto l’impero piccolo-tedesco, ma anche la repubblica francese.
Il risultato generale fu però che in Europa l’indipendenza e l’unità interna
delle grandi nazioni, con la sola eccezione della Polonia, erano diventate
realtà. Certo, entro confini relativamente modesti, ma in modo abbastanza ampio
perché il processo di sviluppo della classe operaia non trovasse più un
ostacolo essenziale nelle complicazioni nazionali. I becchini della rivoluzione
del 1848 erano diventati i suoi esecutori testamentari. E accanto ad essi già
si levava minaccioso l’erede del 1848, il proletariato, nell’Internazionale.
Dopo la guerra del
1870-71 Bonaparte scompare dalla scena e la missione di Bismarck è compiuta,
cosicché questi può ridiscendere al livello di un grande proprietario fondiario
qualunque. Il periodo viene chiuso, però, dalla Comune di Parigi. Un tentativo
sornione di Thiers di rubare alla Guardia nazionale di Parigi i suoi cannoni
provocò un’insurrezione vittoriosa. Apparve ancora una volta che a Parigi non è
più possibile nessun’altra rivoluzione, che non sia una rivoluzione proletaria.
Dopo la vittoria il potere cadde nelle mani della classe operaia da sé, senza
la minima opposizione. E ancora una volta apparve quanto questo potere della
classe operaia fosse impossibile anche allora, venti anni dopo il periodo
illustrato nel nostro libro. Da una parte la Francia lasciò in asso Parigi,
stette a guardare mentre questa si dissanguava sotto le palle di MacMahon; d’altra
parte la Comune si consumò nella infeconda controversia dei due partiti che la
dividevano, dei blanquisti (maggioranza) e dei proudhoniani (minoranza) ignari
ambedue del da farsi. La vittoria gratuita del 1871 fu altrettanto infruttuosa
quanto il colpo di sorpresa del 1848.
Con la Comune di
Parigi si credette di aver definitivamente sepolto il proletariato combattente.
Ma tutt’al contrario dalla Comune e dalla guerra franco-tedesca data la sua
ascesa più poderosa. Il rivolgimento completo di tutta l’arte della guerra,
causato dall’arruolamento di tutta la popolazione capace di portare le armi in
eserciti che non si contano ormai più che per milioni e da armi da fuoco,
proiettili ed esplosivi di efficacia sinora sconosciuta, da un lato pose fine
bruscamente al periodo delle guerre bonapartistiche e assicurò lo sviluppo
pacifico dell’industria, rendendo impossibile ogni altra guerra che non sia una
guerra mondiale di un orrore inaudito e di conseguenze assolutamente
incalcolabili. D’altro lato questo rivolgimento dell’arte della guerra, grazie
alle spese militari crescenti in progressione geometrica, spinse le imposte a
un’altezza vertiginosa e quindi gettò le classi popolari più povere nelle
braccia del socialismo. L’annessione dell’Alsazia-Lorena, causa immediata della
folle corsa agli armamenti, ben poté istigare sciovinisticamente l’una contro l’altra
la borghesia francese e la borghesia tedesca; per gli operai dei due paesi essa
divenne un nuovo mezzo di unione. E l’anniversario della Comune di Parigi
divenne il primo giorno di festa generale di tutto il proletariato.
Come Marx aveva
predetto, la guerra del 1870-71 e la sconfitta della Comune avevano
contemporaneamente spostato il centro di gravità del movimento operaio dalla Francia
alla Germania. In Francia occorsero naturalmente degli anni per rifarsi del
salasso del maggio 1871. In Germania, invece, dove l’industria, favorita dalla
manna dei miliardi francesi [499], si
sviluppava
sempre più rapidamente, come in una serra calda, ancora più rapidamente e
intensamente si sviluppava la socialdemocrazia. Grazie all’intelligenza con la
quale gli operai tedeschi seppero far uso del suffragio universale introdotto
nel 1866, lo sviluppo sorprendente del partito si manifestò apertamente al
mondo intero in cifre inoppugnabili. 1871: 102.000; 1874: 352.000; 1877:
493.000 voti socialdemocratici. In seguito venne il riconoscimento di questi
progressi da parte delle autorità superiori, sotto la forma della legge contro
i socialisti; il partito fu momentaneamente disperso, il numero dei voti cadde
nel 1881 a 312.000. Ma ciò venne rapidamente, superato e ora, sotto la
pressione della legge d’eccezione, senza stampa, senza organizzazione
esteriore, senza diritto di associazione e di riunione, ora è incominciata per
davvero la rapida estensione del movimento: 1884: 550.000; 1887: 763.000; 1890:
1.427.000 voti. Allora la mano dello Stato è stata paralizzata. La legge contro
i socialisti è svanita; il numero dei voti socialisti è salito a 1.787.000, più
di un quarto dei voti complessivi. Il governo e le classi dominanti avevano
esaurito tutti i loro mezzi, senza utilità, senza scopo, senza successo. Le
prove palpabili della loro impotenza, che le autorità, dal guardiano notturno
sino al cancelliere del Reich, avevano dovuto subire - e ciò da parte dei
disprezzati operai - queste prove si contavano a milioni. Lo Stato era giunto
alla fine del suo latino; gli operai non erano che al principio del loro.
Ma gli operai
tedeschi avevano reso alla loro causa anche un altro grande servizio, oltre al
primo, che consisteva nella semplice loro esistenza come il partito socialista
più forte, più disciplinato, più rapido nel suo sviluppo. Mostrando ai loro
compagni di tutti i paesi come ci si serve del suffragio universale, essi
avevano dato loro una delle armi più efficaci.
Il suffragio
universale esisteva in Francia già da molto tempo, ma era caduto in discredito
per l’abuso fattone dal governo bonapartista. Dopo la Comune non era più
esistito un partito operaio che potesse utilizzarlo. Anche in Spagna esso
esisteva dal tempo della repubblica, ma in Spagna l’astensione elettorale era
sempre stata la regola di tutti i partiti seri di opposizione. Anche le
esperienze svizzere di suffragio universale erano tutto fuorché un
incoraggiamento per un partito operaio. Gli operai rivoluzionari dei paesi
latini si erano abituati a considerare il diritto di voto come una trappola,
come uno strumento di mistificazione governativa. In Germania fu tutt’altro.
Già il “Manifesto del
Partito comunista” aveva proclamato la conquista del suffragio universale,
della democrazia, come uno dei primi e più importanti compiti del proletariato
militante e Lassalle aveva ripreso questo punto. Quando poi Bismarck si vide
costretto a introdurre questo diritto di voto come unico mezzo per interessare
le masse popolari ai suoi piani, i nostri operai immediatamente presero la cosa
sul serio e inviarono August Bebel nel primo Reichstag costituente. Da quel
giorno essi hanno utilizzato il diritto di voto in un modo che ha recato loro
vantaggi infiniti e che è servito di esempio agli operai di tutti i paesi.
Secondo le parole del programma marxista francese, il diritto di voto è stato
da essi transformé, de moyen de duperie qu’il a été jusqu’ici, en instrument d’émancipation,
trasformato da strumento d’inganno, quale è stato sino ad ora, in strumento di
emancipazione [500]. E quando anche il suffragio
universale non avesse dato altro vantaggio che quello di permetterci di
contarci ogni tre anni, di avere, grazie alla regolare verifica del rapido e
inatteso aumento dei voti, aumentato in egual misura la fede degli operai nella
vittoria e la paura dell’avversario, diventando così il nostro miglior mezzo di
propaganda; di darci una nozione esatta delle nostre proprie forze e di quelle
di tutti i partiti avversari, fornendoci così un criterio superiore a qualsiasi
altro per regolare la nostra azione e preservandoci tanto dalla pusillanimità
inopportuna, quanto dalla intempestiva temerità; se questo fosse il solo
vantaggio che abbiamo ricavato dal diritto di voto, sarebbe già più e più che
sufficiente. Ma il suffragio universale ha fatto molto di più. Nell’agitazione
elettorale ci ha fornito un mezzo che non ha l’eguale per entrare in contatto
con le masse popolari là dove esse sono ancora lontane da noi; per costringere
tutti i partiti a difendere dai nostri attacchi davanti a tutto il popolo le
loro opinioni e le loro azioni. Inoltre esso ha aperto ai nostri rappresentanti
al Reichstag una tribuna, dall’alto della quale essi hanno potuto parlare ai
loro avversari nel parlamento e alle masse con tutt’altra autorità e libertà
che nella stampa e nelle riunioni. Di quale aiuto è stata per il governo e per
la borghesia la loro legge contro i socialisti, se l’agitazione elettorale e i
discorsi socialisti nel Reichstag hanno continuamente aperto in essa delle
brecce?
Ma con questa
efficace utilizzazione del suffragio universale era entrato in azione un nuovo
metodo di lotta del proletariato, che andò sviluppandosi rapidamente. Si trovò
che le istituzioni dello Stato, in cui si organizza il dominio della borghesia,
offrono ancora altri appigli a mezzo dei quali la classe operaia può combattere
queste stesse istituzioni statali. Si partecipò alle elezioni delle differenti Diete,
dei consigli comunali, dei probiviri; si contese alla borghesia ogni posto alla
conquista del quale potesse partecipare una parte sufficiente del proletariato.
Così accadde che la borghesia e il governo arrivarono a temere molto più l’azione
legale che l’azione illegale del partito operaio, più le vittorie elettorali
che quelle della ribellione.
Anche qui infatti le
condizioni della lotta avevano subito un mutamento sostanziale. La ribellione
di vecchio stile, la lotta di strada con le barricate, che sino al 1848 erano
state l’elemento decisivo in ultima istanza, erano considerevolmente
invecchiate.
Non facciamoci
illusioni: una vera vittoria della insurrezione sull’esercito nella lotta di
strada, una vittoria come tra due eserciti, è una delle cose più rare. Gli
insorti stessi del resto ben di rado avevano contato su di essa. Si trattava
per essi soltanto di paralizzare le truppe con influenze morali, che nella
lotta tra gli eserciti di due paesi belligeranti non entrano affatto in gioco o
vi entrano in misura molto piccola. Se la cosa riesce, la truppa rifiuta di
marciare, oppure il comando perde la testa e l’insurrezione è vittoriosa. Se la
cosa non riesce, anche se l’esercito è inferiore come numero, si impone la
superiorità derivante dal migliore armamento e dalla migliore istruzione
militare, dalla unità di comando, dall’impiego razionale delle forze
combattenti e dalla disciplina. Il massimo che l’insurrezione può dare in un’azione
veramente tattica, è la costruzione e la difesa razionale di una barricata
singola.
L’appoggio reciproco,
la disposizione e l’impiego delle riserve, in una parola, la cooperazione e il
collegamento nell’azione dei distaccamenti singoli, indispensabili anche solo
per la difesa di un solo rione della città, nonché di tutta una grande città,
per lo più non possono essere ottenuti o possono essere ottenuti soltanto in
modo estremamente difettoso. Della concentrazione delle forze combattenti in un
punto decisivo non si può dunque nemmeno parlare.
Perciò la resistenza
passiva è la forma di lotta che prevale: l’attacco si scatena qua e là, ma solo
in via d’eccezione, sotto forma di incursioni e attacchi di fianco occasionali;
di regola però si riduce all’occupazione delle posizioni abbandonate dalle
truppe in ritirata. A questo si aggiunge ancora che l’esercito dispone di
artiglieria e di truppe del genio perfettamente equipaggiate e istruite, mezzi
di lotta che mancano quasi sempre agli insorti. Nessuna meraviglia dunque che
anche le lotte sulle barricate combattute col più grande eroismo - a Parigi nel
giugno 1848, a Vienna nell’ottobre 1848 e a Dresda nel maggio 1849 -
terminassero con la sconfitta dell’insurrezione, non appena i capi che
dirigevano l’attacco, immuni da riguardi politici, agirono con criteri
puramente militari e i soldati rimasero loro fedeli.
I numerosi successi
degli insorti fino al 1848 furono dovuti a cause molto varie. Nel luglio 1830 e
nel febbraio 1848 a Parigi, come nella maggior parte delle battaglie di strada
spagnole, tra gli insorti e l’esercito vi era una guardia civica, la quale o
prendeva direttamente le parti dell’insurrezione, oppure col proprio contegno
fiacco e irresoluto faceva esitare anche l’esercito e per di più forniva armi
all’insurrezione. Là dove questa guardia civica si schierò sin dall’inizio
contro l’insurrezione, come nel giugno 1848 a Parigi, questa venne senz’altro
sconfitta. A Berlino la vittoria del popolo fu dovuta nel 1848 in parte al
notevole afflusso di nuove forze armate durante la notte e il mattino del 19
marzo, in parte all’esaurimento e al cattivo vettovagliamento delle truppe, in
parte infine alla paralisi del comando. Ma in tutti i casi la vittoria fu
riportata perché la truppa si rifiutò di obbedire o perché i capi militari
mancarono di decisione o perché ebbero le mani legate.
Persino nell’epoca
classica dei combattimenti di strada la barricata aveva dunque un effetto più
morale che materiale. Essa era un mezzo per scuotere la resistenza dell’esercito.
Se essa resisteva sino a che questo effetto era raggiunto, la vittoria era
sicura. Se no, si era battuti.
[È questo l’elemento
principale che bisogna tener presente anche quando si esaminano le probabilità
di successo di eventuali futuri combattimenti di strada.]
Le probabilità di
successo erano del resto abbastanza cattive già nel 1849. La borghesia si era
gettata dappertutto dalla parte dei governi; “cultura e proprietà” salutavano e
trattavano festosamente l’esercito impiegato contro le insurrezioni. La
barricata aveva perduto il suo fascino; il soldato non vedeva più dietro ad
essa “il popolo”, ma ribelli, mestatori, saccheggiatori, spartitori di bottino,
la feccia della società; l’ufficiale aveva col tempo acquistato esperienza
delle forme tattiche del combattimento di strada; non marciava più diritto e
senza coprirsi contro la trincea improvvisata, ma la aggirava attraversando
giardini, cortili e case. E con un po’ di abilità, in nove casi su dieci la
cosa riusciva.
Ma da quel tempo si
sono verificati moltissimi altri cambiamenti e tutti a favore dell’esercito. Se
le grandi città sono diventate notevolmente più grandi, gli eserciti si sono
accresciuti ancora di più. Parigi e Berlino non si sono quadruplicate dal 1848
ad oggi, ma le loro guarnigioni si sono più che quadruplicate. Per mezzo delle
ferrovie queste guarnigioni possono più che raddoppiarsi in ventiquattr’ore e
in quarantott’ore possono diventare eserciti giganteschi. L’armamento di questa
massa di soldati enormemente accresciuta, è diventato incomparabilmente più
efficace. Nel 1848 il fucile non rigato a percussione: oggi il fucile a
ripetizione di piccolo calibro, che tira quattro volte più lontano ed è dieci
volte più preciso e dieci volte più rapido. Allora le palle massicce e gli
obici dell’artiglieria scarsamente efficaci: oggi le granate a percussione, di
cui una basta per mandare in aria la miglior barricata. Allora il piccone dei
soldati del genio per far breccia nei muri divisori: oggi le cartucce di
dinamite.
Dal lato degli
insorti, al contrario, tutte le condizioni sono diventate peggiori. Una insurrezione
che attiri le simpatie di tutti gli strati popolari è difficile si riproduca;
nella lotta di classe non avverrà infatti mai che tutti i ceti medi si
raggruppino in modo così esclusivo attorno al proletariato da far quasi
scomparire il partito della reazione raccolto attorno alla borghesia. Il “popolo”
apparirà quindi sempre diviso e verrà perciò a mancare una leva potente che fu
tanto efficace nel 1848. Se è vero che dalla parte degli insorti vi sarà un
maggior numero di uomini che hanno compiuto il servizio militare, tanto più
difficile sarà però il loro armamento. I fucili da caccia e di lusso degli armaioli
- se pure la polizia non li avrà resi precedentemente inservibili asportando un
pezzo dell’otturatore - anche in una lotta a piccola distanza non reggono
assolutamente in confronto con i fucili a ripetizione dell’esercito. Fino al
1848 ci si poteva fabbricare da sé con polvere e piombo le necessarie munizioni:
oggi la cartuccia è diversa per ogni fucile e tutte si assomigliano soltanto
per il fatto di essere un complicato prodotto della grande industria e quindi
impossibile a improvvisarsi, di modo che la maggior parte delle armi sono
inservibili se non si posseggono le munizioni adatte ad esse. Infine, i nuovi
quartieri delle grandi città, costruiti dopo il 1848, a vie lunghe, diritte e
larghe, sembrano fatti apposta per l’azione dei nuovi cannoni e dei nuovi
fucili. Sarebbe pazzo il rivoluzionario che scegliesse di sua volontà i nuovi
distretti operai del nord e dell’est di Berlino per una lotta di barricate.
[Vuol dire ciò che
nell’avvenire la lotta di strada non avrà più nessuna funzione? Assolutamente
no. Vuol dire soltanto che dal 1848 le condizioni sono diventate molto più
sfavorevoli ai combattenti civili e molto più favorevoli all’esercito. Una
futura lotta di strada potrà dunque essere vittoriosa soltanto se questa
situazione sfavorevole verrà compensata da altri fattori. Essa si produrrà
perciò più raramente all’inizio di una grande rivoluzione che nel corso
ulteriore di essa e dovrà essere impegnata con forze molto più grandi. Ma
allora queste, com’è avvenuto nel corso della grande rivoluzione francese e poi
il 4 settembre e il 31 ottobre a Parigi [501],
preferiranno l’attacco
aperto alla tattica passiva delle barricate.]
Comprende ora il lettore
perché i poteri dominanti ci vogliono ad ogni costo condurre là dove i fucili
sparano e le sciabole fendono? Perché oggi ci si accusa di vigliaccheria per il
fatto che non scendiamo senz’altro nella strada, dove siamo a priori sicuri
della sconfitta? Perché si invoca da noi con tanta insistenza che ci prestiamo
una buona volta a far la parte della carne da cannone?
I signori sciupano
invano tanto i loro inviti quanto le loro provocazioni. Non siamo così stupidi.
Con egual ragione potrebbero pretendere dal loro nemico che nella prossima
guerra scenda in campo contro di essi in formazioni di linea come ai tempi del
vecchio Fritz, o a colonne di intere divisioni, come a Wagram e a Waterloo e
per giunta munito di fucili a pietra. Se sono cambiate le condizioni per la
guerra tra i popoli, non meno sono cambiate per la lotta di classe. È passato
il tempo dei colpi di sorpresa, delle rivoluzioni fatte da piccole minoranze
coscienti alla testa di masse incoscienti. Dove si tratta di una trasformazione
completa delle organizzazioni sociali, ivi devono partecipare le masse stesse;
ivi le masse stesse devono già aver compreso di che si tratta, per che cosa danno
il loro sangue e la loro vita. Questo ci ha insegnato la storia degli ultimi
cinquant’anni. Ma affinché le masse comprendano quel che si deve fare è
necessario un lavoro lungo e paziente. Questo lavoro è ciò che noi stiamo
facendo adesso e con un successo che spinge gli avversari alla disperazione.
Anche nei paesi
latini si comprende sempre più che la vecchia tattica deve essere riveduta.
Dappertutto [l’attacco senza preparazione è passato in seconda linea,
dappertutto](1) si imita l’esempio tedesco dell’utilizzazione
del diritto di voto, della conquista di tutti i posti che ci sono accessibili.
1.
Alla proposta di Fischer di modificare così la frase:
“Dappertutto la parola d’ordine dell’attacco senza preparazione è passata in
seconda linea”, Engels rispose cancellando l’intera frase ed osservando: “La
vostra proposta conteneva una inesattezza di fatto. Francesi, italiani, ecc.
adoperano tutti i giorni la parola d’ordine dell’attacco, solo che vien
presa meno sul serio”.
In Francia, dove pure
da più di cento anni il terreno è stato minato da rivoluzioni su rivoluzioni,
dove non vi è partito che non abbia pagato il suo tributo alle cospirazioni
rivoluzionarie; in Francia, dove in conseguenza di ciò l’esercito è tutt’altro
che sicuro per il governo e dove in generale le condizioni per un coup de main (colpo di mano) insurrezionale sono molto più favorevoli che in
Germania, anche in Francia i socialisti si convincono sempre più che per essi
nessuna vittoria durevole è possibile se non conquistano prima la grande massa
del popolo che ivi è costituita dai contadini. Anche in Francia il lento lavoro
di propaganda e l’attività parlamentare vengono riconosciuti come il compito
immediato del partito. E i successi non si sono fatti aspettare. Non solamente
sono stati conquistati numerosi consigli comunali, ma alla camera vi sono
cinquanta socialisti, i quali hanno già abbattuto tre ministeri e un presidente
della repubblica.
In Belgio gli operai
hanno conquistato l’anno scorso il diritto di voto e hanno vinto in un quarto
dei collegi elettorali.
Nella Svizzera, in
Italia, in Danimarca, persino in Bulgaria e in Romania i socialisti sono rappresentati
nel parlamento.
In Austria tutti i
partiti sono d’accordo nel ritenere che non ci si può impedire più a lungo l’accesso
al Reichsrat. Che vi entreremo è certo; si discute soltanto per quale porta.
Persino in Russia,
quando si riunirà il famoso Zemski Sobor, l’assemblea nazionale contro la quale
così inutilmente si impunta il giovane Nicola, possiamo essere sicuri che anche
ivi saremo rappresentati
[502]
.
Con questo
naturalmente i nostri compagni all’estero non rinunciano affatto al loro
diritto alla rivoluzione. Il diritto alla rivoluzione è del resto il solo vero
“diritto storico”, l’unico su cui riposano tutti gli Stati moderni senza
eccezione, compreso il Mecklemburgo, la cui rivoluzione aristocratica ebbe
termine nel 1755 con quel “patto di successione” che ancor oggi costituisce la
gloriosa consacrazione scritta del feudalesimo. Il diritto alla rivoluzione è
così incrollabilmente penetrato nella coscienza universale, che persino il
generale von Boguslawski fa risalire a questo diritto del popolo il diritto al
coup d’
État
(colpo di Stato)
ch’egli rivendica per il suo imperatore.
Ma qualsiasi cosa
possa accadere negli altri paesi, la socialdemocrazia tedesca si trova in una
situazione speciale e ha quindi anche, almeno per ora, un compito speciale. I
due milioni di elettori ch’essa manda alle urne, insieme ai giovani, non
elettori, che la seguono, formano la massa più numerosa, più compatta, il “gruppo
d’assalto” decisivo dell’esercito proletario internazionale. Questa massa fornisce
già ora più di un quarto dei voti espressi ed è in continuo aumento, come
dimostrano le elezioni suppletive al Reichstag, le elezioni alle diete dei
singoli Stati, le elezioni municipali e dei probiviri. Il suo aumento si compie
in modo spontaneo, costante, irresistibile e in pari tempo tranquillo, come un
processo naturale. Tutti i tentativi del governo per ostacolarlo sono stati
vani. Già oggi possiamo contare su due milioni e un quarto di elettori.
Avanzando di questo passo, per la fine del secolo avremo conquistato la maggior
parte dei ceti medi della società, dei piccoli borghesi come dei piccoli
contadini e saremo diventati nel paese la forza decisiva, alla quale tutte le
altre dovranno inchinarsi, lo vogliano o non lo vogliano. Mantenere ininterrotto
il ritmo di questo aumento, sino a che esso sopraffaccia da sé l’attuale
sistema di governo (2), [non consumare
in combattimenti d’avanguardia questo gruppo d’assalto che si rafforza di
giorno in giorno, ma conservarlo intatto sino al giorno decisivo,] tale è il
nostro compito fondamentale. E vi è un solo mezzo, con cui potrebbe esser
momentaneamente arrestato e persino rigettato addietro per un certo tempo
questo accrescimento continuo delle forze di combattimento del socialismo in
Germania: un conflitto di grandi proporzioni con l’esercito, un salasso come
quello del 1871 a Parigi. A lungo andare, anche questo verrebbe superato. Far
sparire a colpi di fucile un partito che si conta a milioni è cosa cui non
bastano tutti i fucili a ripetizione d’Europa e d’America. Ma l’evoluzione
normale sarebbe frenata, [il gruppo d’assalto forse non sarebbe più a
disposizione nel momento critico], la lotta decisiva (3)
verrebbe ritardata, protratta e costerebbe gravi sacrifici.
2.
Su proposta di Fischer accettata da Engels “attuale” (“gegenwärtig”)
è sostituito con “dominante” (“herrschend”) nell’edizione del “Vorwärts”.
3.
Su proposta di Fischer accettata da Engels “lotta
decisiva” (“Entscheidungskampf”) è sostituito con “decisione” (“Entscheidung”)
nell’edizione del “Vorwärts”.
L’ironia della storia
capovolge ogni cosa. Noi, i “rivoluzionari”, i “sovversivi”, prosperiamo molto
meglio con i mezzi legali che con i mezzi illegali e con la sommossa. I partiti
dell’ordine, com’essi si chiamano, trovano la loro rovina nell’ordinamento
legale che essi stessi hanno creato. Essi gridano disperatamente con Odilon
Barrot: la légalité nous tue, la legalità è la nostra morte; mentre noi in
questa legalità ci facciamo i muscoli forti e le guance fiorenti e prosperiamo
ch’è un piacere. E se non commetteremo noi la pazzia di lasciarci
trascinare alla lotta di strada per far loro piacere, alla fine non rimarrà
loro altro che spezzare essi stessi questa legalità divenuta loro così fatale.
Per il momento essi
fanno nuove leggi contro la sovversione [503]. Tutto è
di nuovo
capovolto. Questi fanatici dell’antisovversione non sono essi stessi i fautori
di ieri della sovversione? Siamo forse stati noi a provocare la guerra
civile nel 1866? Siamo forse stati noi a cacciare il re dell’Hannover,
il principe elettore d’Assia, il duca di Nassau, dai loro domini ereditari e
legittimi e ad annettere questi domini? E questi sovvertitori della
Confederazione tedesca e di tre corone per grazia di Dio si lamentano del
sovversivismo? [504]
Quis tulerit Gracchos de seditione querentes
? Chi permetterà che gli adoratori di
Bismarck scaglino insulti contro i sovversivi?
Ma facciano pure le
loro leggi contro i sovversivi; le rendano pure anche più gravi; rendano pure
di gomma elastica tutto il codice penale; non otterranno altro che una prova di
più della loro impotenza. Per mettere sul serio alle strette la
socialdemocrazia dovranno prendere ancora ben altre misure. Alla sovversione
socialdemocratica, che per il momento (4) vive nell’osservanza
delle leggi, essi possono opporre solo la sovversione propria del partito dell’ordine,
la quale non può vivere senza violare le leggi. Il signor Rössler, il burocrate
prussiano e il signor von Boguslawski, il generale prussiano, hanno indicato
loro la sola via seguendo la quale forse possono ancora aver ragione degli
operai, che decisamente non si lasciano più trascinare alla lotta di strada.
Violazione della Costituzione, dittatura, ritorno all’assolutismo,
regis voluntas suprema lex
! (la volontà del re è legge suprema!). Orsù, coraggio,signori
miei, qui non bastano le chiacchiere, qui bisogna far sul serio!
4.
Alla proposta di Fischer di cancellare “per il momento”,
Engels obiettava: “Voi volete levare “per il momento”, trasformare quindi una tattica
momentanea in una tattica permanente, una tattica relativa in una che è valida
in assoluto. Questo non lo faccio, non posso farlo, senza perder la faccia
irrimediabilmente. Evito quindi la contrapposizione e dico: ‘la sovversione
socialdemocratica, cui proprio ora giova molto osservare le leggi’ ”.
Ma non dimenticate
che il Reich tedesco, come tutti i piccoli Stati e in generale come tutti gli
Stati moderni, è il prodotto di un patto, del patto in primo luogo dei principi tra di loro e in
secondo luogo dei principi col popolo. Se una parte rompe il patto, tutto il
patto viene meno e anche l’altra parte allora non è più vincolata. [Come
Bismarck ci ha così ben dimostrato nel 1866. Se voi violate dunque la
Costituzione del Reich, allora la socialdemocrazia è libera e può fare nei
vostri confronti ciò che vuole. Ma ciò che essa farà allora, si guarda bene dal
farvelo sapere oggi!]
(5)
5.
Engels, pur accettando la proposta di eliminare la
frase, nella sua lettera a Fischer osservava: “Perché mai troviate pericoloso
il riferimento a ciò che fece Bismarck nel 1866 violando la Costituzione, mi è
assolutamente incomprensibile. Eppure questo è un
argumentum ad hominem (argomentazione basata sulla
citazione di un fatto irrefutabile)
come nessun altro. Tuttavia vi faccio questo favore”.
Sono passati quasi
esattamente 1600 anni da quando nell’Impero romano agiva ugualmente un
pericoloso partito sovversivo. Esso minava la religione e tutte le basi dello
Stato; esso negava per l’appunto che il volere dell’imperatore fosse la legge
suprema; esso era senza patria, internazionale, si estendeva in tutte le terre
dell’impero, dalla Gallia all’Asia e al di là dei confini dell’impero. Esso
aveva fatto per un lungo periodo di tempo un lavoro segreto sotterraneo, di
disgregazione; ma da parecchio tempo già si sentiva abbastanza forte per
mostrarsi alla luce del sole. Questo partito sovversivo, conosciuto col nome di
cristianesimo, era anche fortemente rappresentato nell’esercito: intere legioni
erano cristiane. Quando erano comandate a prestar servizio d’onore alle
cerimonie dei sacrifici della chiesa di Stato pagana, i soldati sovversivi
spingevano la temerità sino a porre sui loro elmi in segno di protesta dei
distintivi particolari: delle croci. Persino le abituali vessazioni di caserma
dei superiori erano vane. L’imperatore Diocleziano non poté più assistere
passivamente al modo come l’ordine, l’obbedienza e la disciplina venivano
minate nel suo esercito. Egli prese misure energiche, mentre vi era ancora
tempo. Promulgò una legge contro i socialisti, volevo dire contro i cristiani.
Le riunioni dei sovversivi vennero proibite; i loro locali vennero chiusi o
addirittura demoliti; i distintivi cristiani, croci ecc., vennero proibiti come
i fazzoletti rossi in Sassonia. I cristiani vennero dichiarati incapaci a
coprire cariche di Stato; essi non potevano nemmeno essere caporali. Siccome
allora non si disponeva ancora di giudici così ben addestrati alla “considerazione
delle persone”, come li prevede il disegno di legge del signor von Köller, si
proibì puramente e semplicemente ai cristiani di domandar giustizia davanti ai
tribunali. Anche questa legge eccezionale rimase senza effetto. I cristiani la
strapparono dai muri per scherno; anzi, si dice che a Nicomedia essi avrebbero
incendiato il palazzo in cui si trovava l’imperatore. Allora questi si vendicò
con la grande persecuzione dei cristiani dell’anno 303 dell’era nostra. Essa fu
l’ultima del genere. E fu così efficace che diciassette anni dopo l’esercito
era composto in gran maggioranza di cristiani e che il successivo autocrate di
tutto l’impero romano, Costantino, dai preti detto il Grande, proclamò il
cristianesimo religione di Stato.
NOTE
496
La vasta proprietà donata nel 1871 da
Guglielmo I al cancelliere Bismarck.
141
“
in
partibus fidelium
”: aggiunta al titolo
dei vescovi cattolici designati a ricoprire la carica, puramente onorifica, di
vescovo di località poste in paesi non cristiani. L’espressione viene
frequentemente usata da Marx e Engels per i vari governi di emigrati formatisi
all’estero e che tenevano in scarsa considerazione la reale situazione dei loro
paesi.
497
“Legittimisti” , i seguaci della “legittima”
monarchia dei Borboni, che regnarono in Francia fino al 1792 e poi dal 1815 al
1830;
“orleanisti”, i seguaci della dinastia degli Orléans, giunta al potere con la
rivoluzione del luglio 1830 e caduta con la rivoluzione del 1848.
498
Sotto Napoleone III, la Francia prese parte
alla guerra di Crimea (1854-1855), fece guerra all’Austria per l’Italia (1859),
partecipò con l’Inghilterra alle guerre contro la Cina (1856-1858 e 1860),
iniziò la conquista dell’Indocina, organizzò una spedizione in Siria (1860-61)
e una in Messico (1862-1867) e infine nel 1870-71 fece guerra alla Germania.
499
In base al trattato di pace di Francoforte
(10 maggio 1871), la Francia doveva pagare alla Germania un’indennità di 5
miliardi di franchi.
500
La frase è tratta dalla parte introduttiva
del programma del Partito operaio francese redatto sotto le direttive di Marx e
approvato nel 1880 dal congresso di Le
Havre
.
501
Il 4 settembre 1870 fu abbattuto l’impero di
Napoleone III e fu proclamata la repubblica. Il 31 ottobre 1870 ebbe luogo il
fallito tentativo insurrezionale dei blanquisti contro il governo di “difesa
nazionale”.
502
“Zemski Sobor” erano nel XVI e XVII secolo le
assemblee dei ceti convocate saltuariamente nella Russia zarista. Dal 1864
sorsero, da elezioni tutt’altro che democratiche, le rappresentanze dei
distretti e dei governatorati (i cosiddetti zemstvo), che favorivano gli
interessi dei proprietari terrieri e dei capitalisti. Verso la fine del XIX
secolo cominciarono a farsi strada negli zemstvo delle aspirazioni
costituzionali. Latifondisti liberali e capitalisti, sotto la spinta del
movimento rivoluzionario, chiesero una maggiore rappresentanza popolare.
Tuttavia, nel suo discorso ai deputati degli zemstvo e delle città (17 gennaio
1895), lo zar Nicola II definì “sogni insensati” le speranze in una
Costituzione.
503
Il 5 dicembre 1894 fu presentato al
Reichstag dal ministro degli interni von Köller il progetto di una nuova legge
contro i socialisti, che fu respinto 1’11 maggio 1895.
504 Nel 1866, dopo la guerra austroprussiana, Bismarck detronizzò il re dell’Hannover, il principe elettore d’Assia e il duca di Nassau, i cui paesi, con lo Schleswig-Holstein e la città libera di Francoforte furono annessi alla Prussia. Con la guerra aveva cessato di esistere la Confederazione germanica, che dal 1815 riuniva tutti gli Stati della Germania e Bismarck creò la Confederazione della Germania settentrionale, formata da 22 piccoli Stati a nord del Meno sotto la guida della Prussia. Non ne facevano parte i tre Stati meridionali, la Baviera, il Württemberg, il Baden e una parte dell’Assia. La Confederazione della Germania settentrionale durò dal 18 agosto 1866 al 31 dicembre 1870.